Tutti naviganti

GiovanniDelloIacovo
3 min readMar 7, 2021

Nel 1991 ero più romano che foggiano, figuriamoci pugliese: Foggia era il punto di distacco per l’altrove di quel lungo rettilineo di decollo che era la Puglia.
Facevo il giornalista da circa tre anni e mi reimmergevo nella realtà foggiana, molto autoreferenziale, quando rientravo dalle pause canoniche del calendario universitario: Pasqua, Natale, l’estate…
Il grande esodo albanese mi svelò la Puglia come “terra promessa”; ma fu più d’estate, con l’approdo della “Vlora” a Bari e tutto quello che ne derivò, compresi i treni con le porte blindate che, di sera tardi, transitarono nella stazione di Foggia, trasportando i profughi chissà dove.
Allo stadio “della Vittoria” di Bari, di agosto, vidi la realtà più vicina alla bolgia dantesca che fa parte dell’immaginario fabbricato nel viaggio di formazione che tutti gli italiani percorrono nella scuola dell’obbligo.
No, non fu un episodio solo di accoglienza: si sentiva puzzo di sudore misto a puzza di piscio ovunque, dalle parti di quella banchina del porto; e, a favore dei deportati nel vecchio stadio, i panini venivano lanciati a casaccio dentro una muraglia di disperazione.
Alla stazione di Foggia, alla vigilia di ferragosto, vissi un’esperienza che scatenò un rigurgito irrefrenabile, mescolato dentro le tracce sconvolgenti che aveva scavato il popolarissimo sceneggiato “Olocausto”, con una quasi esordiente Meryl Streep. I treni erano stati sigillati e gli albanesi, con preghiere soffocate, sbracciandosi dai finestrini, invocavano “Acqua!”.
Io smisi di osservare e registrare e mi misi a correre su e giù per riempire bottiglie con l’acqua calda e metallica che fuoriusciva dalle fontanine a bottone che c’erano sulle banchine della stazione di Foggia. E come me tanti altri, anche i vecchi che si erano messi lì a guardare il transito di quei vagoni annunciato dai telegiornali.
Eravamo tutti zuppi.
E tristi.
Anzi: feriti, dolorosamente.
Questo mi ricordo di quella serata afosa e surreale.
La solidarietà della Puglia, quella vera, l’ho vista e scoperta solo l’estate dell’anno dopo, quando in un piccolo paese del Brindisino, Torchiarolo, dove era nata la mia ragazza di allora, terra di immigrazione quasi sempre senza ritorno e di caporalato cannibale, vidi con quale riguardo, generosità e amicizia disinteressata era stata accolta, ospitata, assistita e sfamata una piccola comunità di profughi albanesi: l’incarnazione di quel “mia faza, mia raza”, “una faccia, una razza”, eternato dal “Mediterraneo” di Gabriele Salvatores, che era uscito l’anno prima.
Il mio impegno come consigliere di amministrazione della Fondazione Apulia Film Commission mi ha consentito, nel 2019, di ricollegarmi a quell’esperienza di trent’anni fa e di rivivere quei legami. Conoscendo al Balkan Film Market di Tirana la cultura, il sorriso, la forza e la passione di Ilir Butka, oggi direttore del Centro di Cinematografia Albanese. E a “Mònde”, la festa del cinema sui cammini organizzata da Luciano Toriello sul Gargano, conoscendo Roland Sejko, direttore responsabile del sito dell’archivio cinematografico dell’Istituto Luce che conserva quasi un secolo di memoria storica collettiva italiana, fissato in immagini in movimento, in milioni di metri di pellicola e più di 77 mila filmati distribuiti on line.

A Tirana, con Ilir Butka e Salvatore Caracuta, produttore della “Passo Uno”
Roland Sejko e Luciano Toriello, a Monte Sant’Angelo

Ilir e Roland erano due dei cinquemila albanesi in fuga dal regime comunista, stipati dentro la “Legend”, l’arrugginita “nave panamense” che avviò il grande esodo del 1991 verso il porto di Brindisi.

E nisciuno è pirata e nisciuno è emigrante
Simme tutte naviganti
Eugenio Bennato, “Che il Mediterraneo sia”

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GiovanniDelloIacovo

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